Riflessione su economia dell’abbondanza e sistemi di pagamento

i sistemi di pagamento tradizionali sono funzionali all'economia della scarsità connaturata nei beni fisici e caratterizzata da rendimenti decrescenti e limiti di ottimo paretiano; ne consegue che una caratteristica fondamentale dei sistemi transazionali sia la necessità di sanzionare comportamenti reprobi._

nel mondo immateriale le regole sono diverse, i rendimenti possono essere crescenti come mostrato da Brian Arthur; l'economia non ha una scarsita' intrinseca ma e' una economia dell'abbondanza alla quale stiamo tentando di applicare, con poco successo, i sistemi transazionali tipici dell'economia della scarsità.

partendo da cosiderazioni pragmatiche su disponibilità e modalità d'uso dei "neobeni" (beni informativi abilitati dalla tecnologia), descrivo un possibile nuovo sistema transazionale, per i beni digitali, che non si basa sulla sanzione dei comportamenti reprobi ma anzi sulla valorizzazione dei comportamenti virtuosi.

Scarica 2010.03.19 la fine della distribuzione aggregata (pdf)

vi invito a leggere l'allegato e a riconsiderare, sotto questa chiave interpretativa, l'esperienza di iTunes Music Store (che non e' che abbia fatto sparire la musica dai circuiti P2P, ma ha aiutato l'industria a immaginare e trovare altre forme di remunerazione)

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32 thoughts on “Riflessione su economia dell’abbondanza e sistemi di pagamento”

  1. Letto d’un fiato.
    Straordinario! Ho qualche perplessità solo sul fatto che una “reputazione” di buon pagatore deve ricondursi ad una “unica” identità e questo può comportare un problema di corretto trattamento di dati personali.
    Btw (e ot) mi stavo chiedendo stamani nel dormiveglia perché Google non è nata in Italia, perché la sola idea che una società come Google possa nascere in Italia può sembrare folle ai più.
    Sarebbe bello provare a dare delle risposte.
    Perché in Italia Page e Brin non sarebbero mai venuti a studiare?
    Perché, in Italia un Page e Brin non avrebbero trovato un venture capital?
    Perché qui si mangia troppo bene e quindi ci si impigrisce?

  2. Ciao Quinta, è pur vero che ho letto una volta sola, ma resta il fatto che non ho capito bene.
    Il tenere traccia degli eventi/reputazione, oltretutto assicurando la “interoperabilità tra i gestori degli impegni di pagamento”, appare come un problema dello stesso ordine di complessità di quello consistente nel registrare banali transazioni di pagamento (come si pensa di fare in Francia, mi pare). Dunque, non ho capito in cosa consista l’innovazione.
    PS: Riccardo, Google non sarebbe potuta nascere in Italia per ragioni culturali profonde e varie, ad alcune delle quali tu alludi, e che io ho cercato di esprimere qui: http://alturl.com/n5we

  3. paper davvero molto interessante, condivido in particolar modo l’idea della partita doppia per l’utente, ho in mente qualcosa di simile da alcuni mesi ma è sempre rimasto in quella sede e dubito ne uscirà.
    ho tuttavia qualche dubbio su un paio di aspetti: il primo riguarda il legame causa effetto tra la nascita di un sistema di pagamenti efficiente e la generazione di una nuova classe di transazioni. Credo che sarebbe più efficace pensare prima a nuovi tipi di transazioni e lasciare che il sistema di pagamento segua, d’altronde la moneta è nata dopo il commercio e paypal è nato dopo ebay.
    Il secondo riguarda una caratteristica dei neobeni che a mio avviso va maggiormente sottolineata e sfruttata per creare un nuovo tipo di transazioni. Il consumatore ha la possibilità di acquisire legalmente un nuovo bene o di appropriarsene illegalmente, come giustamente notato, spesso in maniera più semplice che attraverso il circuito legale (es. degli e-book in italia su tutti). Oltre che dalla facilità con cui può essere realizzata la transazione per il nuovo bene, a mio avviso, è molto importante anche che il prezzo al quale il neobene viene venduto sia percepito come giusto. Proprio perchè una mancata vendita si configura al massimo come un mancato guadagno e non come un costo non recuperabile, pensare nuovi tipi di transazioni per me significa pensare anche a come abbassare sensibilmente i prezzi dei neobeni, penso in questo caso in particolare alla musica. Sempre in uno studio realizzato dal governo inglese, non so se sia lo stesso che cita lei, si sottolineava come oltre il 40 per cento degli intervistati dichiarava che avrebbe acquistato musica sui circuiti legali se solo avesse avuto un prezzo sensibilmente inferiore. Per ora i prezzi sono alti proprio per via delle legacy che le imprese che dominano il mercato si portano dietro. Se il mio core business è ancora vendere pezzi di plastica con un buco in mezzo, difficilmente metterò in piedi un sistema che vende mp3 al prezzo che effettivamente i suoi costi di produzione, duplicazione e distribuzione consentirebbero. Ricordiamoci però anche la seconda parte del titolo del libro di Christensen: When New Technologies Cause Great Firms to Fail..

  4. Stefano Quintarelli

    @Paolo: si vuole andare a costi transazionali di millesimi di euro o meno. eliminare la frizione. cio’ non puo’ esserci nel sistema tradizionale.
    @Emilio: ovviamente si. ma per la musica e’ gia’ cambiato, pensa alla distribuzione su youtube! se pero’ non hai un sistema per cui il costo transazionale e’ quasi nullo, introduci frizione che tende a tenere i prezzi alti.
    grazie per i commenti

  5. @Emilio: Teniamo presente che il legame tra il prezzo e i costi di produzione è debolissimo (pressoché inesistente) in quasi tutti i settori merceologici. Il prezzo è funzione della user experience, dei bisogni, delle motivazioni, dei sogni, del momento storico, della concorrenza, della dimensione del mercato, ecc ecc; ma è una funzione solo debolissima, per non dire nulla, del costo di produzione. Questo è vero per la Mini o la Cinquecento come per gli mp3.
    In un mercato ragionevolmente efficiente, il prezzo “giusto” è solo quello che i clienti pagano. La gente (me compreso) paga 0.99 per le song su iTunes, e i venditori tengono botta…

  6. @paolo: mi permetto di dissentire. Per quanto il prezzo possa essere distante dai costi anche per i beni fisici, rimane una grossa differenza tra beni tradizionali e neobeni. Mettiamo pure che produrre una mini costi 1 e venga rivenduta a 100. I margini per il produttore sono alti ma produrre 1 milione di mini costerà sempre un milione (ammettendo che 1 sia già il costo marginale raggiunto producendo 1 milione di mini). Nel caso della musica digitale mettiamo che produrre un album mi costi 1 e che io lo rivenda a 15; nel produrre 1 milione di album il costo marginale di ogni unità in più è però prossimo a zero. Per cui produrre un milione di album non costerà 1 milione come nel caso del bene fisico ma poco più di uno. E’ una bella differenza, scarsamente considerata dai produttori nello stabilire il prezzo finale.

  7. ciao, come Paolo non ho capito il passo logico in base a cui serve avere la reputazione, provo ad azzardare: intendi che se uno conclude una (micro)transazione il venditore deve essere tutelato, e i meccanismi standard di tutela sulle transazioni peserebbero troppo sulla (micro)transazione, quindi ci si limita a legare la cosa ad una identita’/reputazione? Ma sei sicuro che questo costi piu’ o meno di un sistema prepagato con transazioni semplicemente non ripudiabili? O non ho capito niente? Grazie! A.

  8. Stefano Quintarelli

    Si, e’ cosi’.
    La certezza fa ricadere in un ambito regolamentare che impone costi elevati, e ricaschi nel mondo tradizionale.
    Se gestisci impegni di pagamento, che possono essere violati, non hai obblighi regolamentari particolarmente onerosi.

  9. @Emilio, interessante discussione. Speriamo di non annoiare gli altri! Ci sono due obiezioni che si possono sollevare alla tua visione (che peraltro è oggi molto condivisa –a mio parere un po’ affrettatamente):
    Per prima cosa, le Mini vengono prodotte in seguito a un investimento effettuato in macchinari, personale, software, brevetti, processi, marketing. Dopo un certo numero di pezzi venduti si raggiunge il punto di pareggio economico: da quella singola Mini in avanti, non costa NULLA fabbricare nuove copie, perché l’investimento si è ripagato. C’è, è vero, un costo vivo, ma hai GIA’ incassato il denaro per coprirlo. E, d’altra parte, se non produci quella Mini, e le successive, non realizzerai un profitto. Perché nessuno scrive sui blog e sui libri da digital-guru che le Mini, da un certo numero di serie in poi, devrebbero essere regalate o vendute per pochi euro? 🙂
    Più importante, a mio parere, è il fatto che nello «stabilire il prezzo finale» gli editori (sia quelli online sia quelli brick&mortar) pensano solo minimamente e molto marginalmente ai costi di produzione. Per esempio: una song su iTunes costa 0,99 ossia poco meno che su un CD… La correlazione tra costo di produzione e prezzo è, di gran lunga, la più debole e insignificante delle variabili in gioco, in questi come in molti altri beni di consumo.
    Paolo

  10. @Paolo
    due considerazioni: le Mini che produci oltre i costi fissi mantengono un costo variabile significativo, e che devi ripagare. Se proprio vuoi regalare qualcosa regali le prime per fare pubblicita’, e non le successive su cui invece fai soldi.
    Inoltre, il prezzo e’ anche un fattore di discriminazione: troppe Mini in giro ne fanno crollare il valore percepito. Non necessariamente economico, ma di status, distinzioni, etc… Ovvio che questo si applica in modo diverso a beni diversi.
    @Quinta
    Paper interessante, ma tutto si regge sul fatto che si arrivo o meno a “costi transazionali di millesimi di euro o meno”, cioe’ virtualmente a zero, sia in senso finanziario sia di user experience. A quel punto l’utente avrebbe una maggiore convenienza a pagare, perche’ ne deriverebbe una soddisfazione psicologica e di riconoscimento sociale.
    Ma se ad esempio per ogni articolo che leggo devo pensare di pagare il costo di un sms, inizio a preoccuparmi di perdere il controllo nel totale giornaliero. Finanziariamente magari me lo potrei anche permettere, ma psicologicamente mi blocco, ed e’ piu’ facile trovare una fonte alternativa gratuita.

  11. Stefano Quintarelli

    Sei proprio certo ? potrebbero nascere, da parte dei billatori, pacchetti, come per gli SMS, o limiti o warning a soglie… Io non so se funziona, ma se non si prova, di sicuro rimane solo la pubblicita’.

  12. I pacchetti, a mo’ di flat rate, mi convincono di piu’.
    Tutto presuppone pero’ di riunire intorno ad un tavolo i principali billatori, come li chiami. Gia’ capire chi saranno fra due anni mi sembra un lavoretto mica da poco…

  13. Il tema e il paper sono interessantissimi, ma mi sono un po’ perso un punto.
    Oggi si paga per pagare: costo del bonifico, spese della carta di credito, percentuale sui prelievi allo sportello, giacenza media da tenere sul conto per non pagare altri balzelli, rimborso al gerente di un esercizio che accetta i buoni pasto, ecc. Sono costi (e ricavi) che si possono nascondere in mille modi ma che ci sono e che hanno una ragion d’essere. Non è questo il vero problema all’adozione di mezzi di pagamento alternativi? Prima o poi si tira nella catena qualcuno “legacy” che pretende la sua solita percentuale (anche perché la legge serve a garantire esattamente questo prelievo) e tutto diventa difficile. O sbaglio e non è questo un grosso problema?
    “D’altronde, le impostazioni dei sistemi tradizionali, abbiamo ricordato, non possono essere radicalmente modificate perché devono funzionare anche per gli yacht e sostenere gli intermediari finanziari ,e le relative filiere.”: umm, e il bancomat in modalità Fast Pay? O non ho capito di cosa si parlava?

  14. Stefano Quintarelli

    @Bubbo: si. questo e’ IL problema. ma io sto ipotizzando una categoria nuova, una categoria in complemento a due con la precedente. che non si basa su certezza e sanzione ma su probabilita’ e promozione.
    Perche’ una cosa e’ certa, la categoria che si basa su certezza e sanzione non e’ adatta per monetizzare microtrnsazioni tipiche di un costo marginale tendente a 0 come quelle dei digital goods.
    Ci sono digital goods venduti con il sistema tradizionale ? si, ma e’ marginale rispetto a cio’ che puo’ essere. Si potranno vendere physical goods (o neobeni che richiedono certezza) con il meccanismo proposto. No, per costruzione.
    Quindi, non si riduce lo spazio economico attuale, ma lo si amplia. un gioco a somma positiva.

  15. Il concetto, abbiamo detto, è affascinante.
    Come potrebbe essere messo in pratica?
    Il paper, infatti, oltre che essere molto interessante, mi pare che contenga una esortazione a non perdere l’opportunità di fare, “da italiani”, una innovazione.
    E’ pensabile non dipendere dal legislatore o dal sistema bancario (che di sicuro, se può, metterà i bastoni fra le ruote piuttosto che aiutare una iniziativa di questo genere, vedendoci una possibile minaccia alla propria rendita di posizione)?

  16. Stefano Quintarelli

    Un passaggio regolamentare non e’ strettamente necessario, trattandosi di impegni di pagamento non vincolanti.
    E’ una questione di sistema. bisogna mettersi d’accordo e farlo.
    CHe pero’, nel paese dei campanili, suona a utopia.
    Ma io ho cominciato a dire che occorreva One Network e che la media company era una cavolata 4 anni fa, quando sembrava utopia, per cui ci sono abituato…

  17. @Stefano (non Quinta; l’altro)
    Appunto: per i beni di consumo, e persino per molti durevoli, il prezzo non c’entra pressoché nulla col costo di produzione, perché si sono aggiunti valori molto più critici intorno ai quali conquistare l’acquirente.
    Con l’avvento della società dei consumi (metà del XX secolo circa), il prezzo si è sganciato dal costo (o ne è diventato una funzione debolissima). Dobbiamo fare attenzione a non ragionare intorno all’economia digitale con criteri economici che erano obsoleti già nel 1955.
    Per esempio, il sostenere che le song o i film dovrebbero avere PREZZI bassi perché COSTA niente imprimerli su file digitale è un argomento che, oltre a essere smentito dai fatti (le song iTunes hanno un prezzo quasi identico a quelle su Cd…), manca completamente, IMHO, il cuore della discussione intorno al valore della proprietà intellettuale e alla smaterializzazione.
    Paolo

  18. @Quinta:
    Benché io non capisca in che senso essa contribuirebbe a diminuire il costo transazionale, trovo affascinante e molto interessante l’idea di considerare il micropagamento una variabile stocastica.
    Se è un concetto nuovo (io non l’ho mai sentito, ma non mi intendo dell’argomento), esso merita certamente di essere spinto con risolutezza.
    Fossi in te, trasformerei quello che per ora non è che un white paper (= espongo la mia tesi come fosse ottima, unica e migliore delle altre) in un position paper “scientifico” (= espongo la mia idea e la metto in relazione ad altre), corredandolo di riferimenti agli sforzi in corso nel settore dei micropagamenti sia nel settore privato (c’è una grande attività di seed capital, dunque è presumibile che ci sia anche qualche idea non disprezzabile) sia in quello pubblico (che stanno facendo in Francia?).
    Congrats
    Paolo

  19. Stefano Quintarelli

    Grazie.
    Si, diminuisce i costi. La ragione ha a che fare con la normativa relativa al debitore di ultima istanza, ovvero dove si chiude la transazione e se uno non viene pagato sono cavoli suoi e relative procedure di rollback.
    per adesso lo sto traducendo in inglese. io non sono un tecnico e non conosco tutti i riferimenti normativi; spero tuttavia che qualcuno esperto lo veda e ci costruisca sopra un paper scientifico.

  20. @paolo, rispondo con qualche commento di ritardo..
    concordo sul fatto che sia una discussione interessante e spero di non annoiare nessuno, tuttavia continuo ad avere delle riserve sulla tua opinione, che esprimo di seguito. L’esempio del punto di pareggio nella produzione di mini testimonia, a mio avviso, tutta la differenza che esiste tra beni digitali e beni fisici. Poniamo (n.b.numeri e rapporti a caso) che il produttore spenda 1 mln di Zeuro per mettere in piedi la linea produttiva per la mini in questione e che tale linea sia in grado di produrre 1000 unità l’anno. Mettiamo che il punto di pareggio sia raggiunto dopo la 300esima unità, ovvero che vendendo 300 unità il milione di zeuri in questione abbia già fatto ritorno, questo non significa dire che le altre 700 unità hanno un costo di produzione che tende a zero, ma piuttosto che produrre e vendere 1000 mini mi costa 300 mini. Con i numeri proposti significa che vendere 1000 mini mi permette di avere ricavi per 3 milioni 330 mila zeuro e che mi costa 1 milione(ovvero costo medio di 1000 ad unità). Oltre al costo di produzione semplice, nel formare il prezzo va anche calcolato 1)il rischio che non si riesca a vendere più di 300 unità 2) il fatto che si vendano più di 300 unità ma meno di 1000, cosa che fa aumentare il costo medio per unità venduta e può portare ad un aumento dei costi di magazzino 3)soprattutto il fatto che, anche se le cose andassero benissimo e volessi raddoppiare o triplicare la produzione annuale, potrei farlo solo attraverso un nuovo investimento di un milione di zeuro(facciamo un pò meno visto il raggiungimento di economie di scala), abbassando solo di poco il costo medio e soprattutto il costo marginale per ogni unità prodotta. Nel caso dei beni digitali invece, dopo l’investimento iniziale (alto a piacere) orientato alla realizzazione di una singola unità, una volta che si raggiunge il punto di pareggio (che deve essere raggiunto anche in questo settore, non sto affatto dicendo che la produzione di beni digitali sia gratuita), visto che la singola copia può essere riprodotta praticamente a costo zero, più si aumenta la produzione (potenzialmente anche fino ad infinito), più sia il costo medio che il costo marginale di ogni singola copia prodotta si avvicinano a zero. Per produrre di più non c’è bisogno di ulteriore investimento. Per raggiungere il punto di pareggio (diciamo di nuovo di un milione di zeuri)si hanno quindi scenari alternativi: sarebbe infatti ugualmente possibile vendere 1 milione di copie a 1 zeuro o dieci milioni di copie a dieci centesimi e così di seguito. Non per andare dietro ai digital guru ma la differenza tra bene fisico e bene digitale mi sembra ci sia.
    In secondo luogo il fatto che le canzoni su itunes vengano vendute a 1 euro o giù di lì è, a mio avviso, espressione del fatto che i prezzi sono fatti dagli oligopolisti che hanno il proprio core business nella vendita del supporto fisico su cui è incisa la musica. Ovviamente non si fanno concorrenza da soli. Itunes non ha creato nuove tipologie di transazioni, ma ha applicato una nuova tecnologia ad un vecchio modello . Il fatto che le major prendano il 75 per cento del valore di una canzone venduta su iTunes e destinino all’autore solo il 12 per cento del loro ricavo è (imho) precisamente lo scenario che va mutato se si vuole ridurre il download illegale e generare nuove tipologie di transazioni.
    Scusate se mi sono dilungato.

  21. Ciao Quinta
    Ottimo lavoro e utile spunto per una discussione aperta sul tema. Un padio di commenti:
    1. Sul tema generale del mancato guadagno: è vero solo fino ad un certo punto che un produttore di beni digitali può cedere tali beni senza essere pagato. Tutto chiaramente dipende dalla struttura dei costi. Se i costi sono variabili, è necessario che il tasso di riuscita della vendita sia in media almeno superiore al margine variabile. Se il costo è fisso, è necessario che il tasso di successo sia tale da assicurare ricavi superiori al costo fisso. non è corretto assumere che dal momento che un bene è digitale, non abbia costo: esattamente come per i beni fisici, il costo c’è. Quello che è diverso è la sua struttura (ovvero i costi marginali sono molto più prossimi a zero) e la struttura dei ricavi (che dipende dal grado di diffusione e da effetti rete ed esternalità).
    2. Il tema dei micropagamenti potrebbe essere anche gestito con infrastrutture tradizionali (es carte di credito), purché ancora una volta il costo sia sempre in percentuale sul prezzo e senza minimi garantiti. Una massa enorme di microtransazioni potrebbe essere facilmente gestibile dagli operatori di credito attuali, purché non coinvolga la monetizzazione costante degli importi ma invece con un clearing periodico sui totali. Quindi anche la dimensione temporale dei pagamenti, oltre che i loro importi e il numero di venditori e acquirenti, potrebbe essere un parametro importante

  22. Stefano Quintarelli

    Detto dal Chief Economist di un gruppo multinazionale, lo prendo come un complimento.. 😉
    1.- “dipende”. Talvolta io posso decidere di regalare la merce, per promozione. il fatto di avere un service di reputazione consente a ogni venditore di tarare ogni singola proposta commerciale sulla base della redemption che vuole ottenere, limitando l’ampiezza del target! (cosa impossibile con i sistemi attuali. oggi decidi il prezzo ed il target e’ conseguente. domani decidi la probabilita’ ed il target e’ conseguente. potresti avere probabilita’ diverse durante una stessa campagna, un po’ come il pricing dei biglietti aerei. Pensa alla rivoluzione che c’e’ stata in quel segmento. Un tempo venivano fissati anni prima, adesso realtime. Pensa agli algoritmi che possono nascere!!)
    2.- il tema e’ legato al debitore di ultima istanza. se uso il sistema attuale, di fatto e’ il sistema bancario il debitore di ultima istanza e le banche non accetteranno mai questo rischio, (non lo possono accettare per le norme legate alla stabilita’ finanziaria) Ma, anche se non ci fossero queste norme, i sistemi che li gestiscono dovrebbero essere fatti e scritti ex novo, con protocolli e messaggi standard, ecc.. e ricadi esattamente al punto in cui siamo noi.

  23. @Emilio,
    a parte il fatto che per la lunghezza del tuo intervento dovresti essere condannato a 2-3 anni in un campo di rieducazione maoista :-)), ti ribatto due cose: (1) Se volessi dilungarmi in un inutile esercizio retorico, potrei sbizzarrirmi a costruire uno scenario nel quale, anche per i beni brick&mortar, stiracchio il prezzo unitario vs. il numero di copie vendute durante il life-cycle. Ma eviterò di prendere questa sterile strada; (2) Mi limiterò a invitarti a considerare che i dentro i costi di produzione non ci stanno solo cose hard, ma anche cose soft, tipo la pubblicità e mille altre, che incombono anche sul prodotto digitale.
    Quanto alla faccenda di iTunes: bada che i prezzi li fanno i MERCATI, non i venditori. Se la gente compra tante song a 0,99 da rendere redditizio il lavoro dell’editore, ecco che questi sarà contento. Se la gente non comprasse, questi dovrebbe reagire… Non sono un fanatico della free hand di Adam Smith né un aedo del libero mercato; e naturalmente comprendo, come chiunque, che occorra porre rimedio alla deplorevole situazione nella quale si è venuta a trovare l’economia del diritto d’autore. Ma nego che la strada per ricercare soluzioni passi per l’affermazione che siccome un file digitale non costa niente allora i prezzi delle song dovrebbero essere bassi. È semplicistico e non è sulla base di una simile discussione, IMHO, che verranno i nuovi «business model». Io credo che la strada stia in una ridefinizione del diritto d’autore ricca e stratificata, del tipo di quella proposta da Lessig in “Remix”. Poi, ai prezzi, penserà il mercato.

  24. @paolo: mi guarderò dalle guardie rosse, ma a giudicare da lunedì e dal fatto che sto a torino posso stare tranquillo.
    1)In ogni caso io non sostengo affatto che produrre un bene digitale non abbia costi e non trascuro la rilevanza dei costi soft, tuttavia ritengo che abbia quasi esclusivamente costi soft e che il fatto di poter spalmare questi su un numero di copie grande a piacere costituisca un vantaggio di cui la produzione di beni fisici non gode.
    2)In secondo luogo, se il prezzo è fatto dal mercato e non c’é correlazione tra prezzo di vendita e costo di produzione, significa che i margini di profitto per i produttori sono ampi. Mi chiedo quindi, in un contesto di libera concorrenza, cosa trattenga nuovi imprenditori da entrare su mercati in cui, abbassando di poco il prezzo ed accontentandosi di margini leggermente più bassi, è facile realizzare profitto.

  25. @Emilio (attento ai gulag leghisti allora! :-))
    I venditori di musica digitale online sono decine (Amazon, BuyMusic, GoMusic, iTunes, ….). Tantissime anche le modalità, che comprendono il pay-per-download, l’abbonamento (p. es. eMusic), lo streaming invece del downloading (Spotify), il download direttamente dalla radio (DROPme).
    Tanti, immagino, saranno anche i prezzi. Non sono un esperto del settore. Uso solo iTunes: sono stupito di quanto sia caro e mi auto-biasimo per contribuire a quel “ladrocinio”!
    Il mercato è fortemente influenzato dai principali editori, che sono restii a concedere i propri cataloghi in licenza per la rivendita online e che spesso costringono il distributore a buffe limitazioni geografiche. Dunque, per aprire il tuo online store devi prima conquistarti la fiducia delle major, sennò sarai condannato ad avere un catalogo sfigato.
    Ma il fermento è grande. Ci sono gli autori che si autoproducono; le nuove case discografiche nate appositamente per il mercato online; e chissà quanti altri fermenti che io nemmeno mi immagino adesso.
    Però due punti restano fermi, aleggianti sopra a tutto il resto: A) occorre rimordernare il diritto d’autore e B) senza un editore capace ed efficace, il successo è impossibile (a maggior ragione dopo l’avvento del web, sul quale sgomitano centinaia di migliaia di sedicenti artisti…).

  26. Stefano Quintarelli

    non e’ solo il diritto d’autore, per quanto centrale.. io voglio che chi posta un commento sul mio blog mi paghi due centesimi. (Paolo, mi devi 14 centesimi ! :-))

  27. Quinta, il tema da te proposto ci è chiarissimo. La discussione tra Emilio e me aveva preso una piega ellittica, eterodossa: abbiamo inseguito un ramo della discussione, non il suo mainstream (sul quale, comunque, ti ho detto la mia). Scusate tutti se abbiamo rotto un po’!!

  28. Quinta, per tornare invece al tema centrale, visto che sono qui ti dico anche quel che avevo omesso per brevità. Bada che le premesse della tua proposta (lo stimolante PDF che hai postato qui) non sono così scontate come tu mostri di credere. La discussione intorno al come si [ri]aggregheranno le fonti informative sul web è vasta e articolata, e la tesi della «fine della distribuzione aggregata» non è pacifica affatto. Del resto, essa fu prospettata già alla fine degli anni ’90: infatti già OGGI, coerentemente con quel che si preconizzò allora, una persona può costruirsi il suo newsfeed personale periodico (giornaliero, orario, settimanale, ecc). Eppure, gli aggregatori ci sono ancora…
    Le FONTI dalle quali trarre il proprio feed sono importanti e non sono così frammentate come si crede. Per fare un esempio: io sto in internet dal 1980 e naturalmente sul web dal 1993, ma nessuna fonte mi eroga lo stesso valore aggregato rappresentato dal New Yorker, dall’Economist, dall’NY Times, dal Courrier International, da Business Week, da Wired, dal Pais, da Le Monde. Il problema principale di questi editori è come faranno a farsi pagare in modo microparcellizzato (ossia solo gli articoli consultati) da parte di quelli che, a differenza del sottoscritto, non sono disposti a pagare un abbonamento.
    Ma le persone che si autoaggregano i newswire e, nel farlo, ottengono un risultato migliore di un buon giornale sono un numero così trascurabile da non giustificare certo una nuova infrastruttura di micropagamento. Ecco perché, magari, la musica è un terreno di prova migliore per proposte innovative.
    PS: Quando pago un abbonamento al NYT, io non sto pagando solo quella frazione di articoli che leggerò, ma anche il VALORE intangibile eppure cospicuo della selezione effettuata per me da una redazione “scafata”.

  29. Stefano Quintarelli

    Assolutamente si.
    il discorso e’ una rasoiata di occam, per semplicità.
    il mondo e’ assai piu’ complesso e, per alcune fonti, molto caratterizzate, il valore della testata esiste e il bundle continuerà ad esistere.
    pero’, cionondimeno, anche per queste ci sara’ un effetto bordo che le forzera’ a ridefinirsi.
    non occorre togliere il 50% dei clienti ad una azienda per metterla in crisi. siamo in un sistema tanto ottimizzato che una minima perturbazione crea grandi effetti.
    perdi il 10% degli abbonati e dimiuisce l’EBITDA e l’azione si svaluta e ti declassano il rating e ti aumentail costo degli interessi e licenzi persone e diminuisci qualita’ ecc.ecc.ecc.
    chiaramente dipende da industria a industria.
    Prendi EMI, non si ripaghera’ i debiti, Terra uscira’, Citi che la ha finanziata se la accattera’ e magari la chiuderanno, ed e’ un peccato perche’ ha trovato un nuovo assetto, ma troppo tardi.
    Economist, Sole 24 Ore, gli esempi che fai tu, tenderanno ad essere numericamente un paio di ordini di grandezza in meno di quelli attuali (magari quelli di prossimità aumenteranno), quindi la rasoiata di occam ci sta.
    cmq. non inficia il ragionamento!

  30. @paolo
    condivido in pieno le riflessioni del tuo commento di ieri mattina. Di rivenditori ce ne sono tanti, per il download i prezzi non è che cambino moltissimo (amazon è meno cara di itunes ed ha condizioni più generose verso gli affiliates ma tanto per ora non è accessibile dall’italia) perchè la parte che le major pretendono è sempre quella. Molto più interessanti sono i servizi in abbonamento e in streaming. Quelle sono effettivamente nuove tipologie di transazioni che basano il loro successo principalmente sulla riduzione del prezzo finale. Io uso spotify e sicuramente da quando ce l’ho ascolto molta più musica nuova di quanto non farei se dovessi pagare 99 cents a traccia. i tuoi punti a) e b) li condivido in pieno; non dico affatto che gli editori non siano necessari, dico che i 4 principali editori con cui oggi tutti devono fare i conti non siano i più indicati a raccogliere le opportunità che la tecnologia oggi offre, così come i produttori di carrozze non erano i più indicati a produrre automobili, perchè hanno l’eredità di routine, di processi, di modelli di business che sono d’ostacolo per una reale innovazione.
    Mi scuso anch’io se nella discussione con Paolo siamo andati un po’ fuori tema, ma purtroppo non capita spesso di avere l’opportunità di discutere e riflettere su tematiche così interessanti.

  31. Ciao Stefano,
    complimenti per la tua idea che ha generato una ricca pagina di interventi tutti interessanti.
    Questo è solo l’inizio. La questione dei micropagamenti potrebbe essere il carburante per una nuova economia, in Italia, spero, ma con la media delle età che ci governano…

  32. Mamma mia quanti commenti Quinta! Da ideatore del sistema ipay di dmin.it ti faccio i miei complimenti per la sua chiara contestualizzazione nel settore editoriale. Mi perdonerai se approfitto dei tuoi numerosi, qualificati e stimolanti lettori per promuovere ulteriormente http://www.dmin.it, sollecitandoli a partecipare, almeno remotamente, iscrivendosi alla sua mlist (o riflettore come piace chiamarlo a Leonardo). Li (www.dmin.it) troveranno anche la bozza dello statuto del consorzio che stiamo andando a costituire. Chiedo loro venia preventiva per ridotta ergonomicità del sito http://www.dmin.it. Non appena saremo un consorzio cercheremo di migliorarlo.
    Concludo ringraziandoti per quanto ti stia spendendo di persona per promuovere ipay e i commenti che hai ricevuto mi danno ulteriore energia per andare avanti con ancora più determinazione su questa strada che abbiamo intrapreso nel lontano novembre 2005.
    Un caro saluto
    Mimmo Cosenza

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