Intermediati di tutto il mondo, unitevi!

Intermediati di tutto il mondo, unitevi!
Intermediated of the world, unite!
Intermediados del mundo, unìos!
Intermediados do mundo, uni-vos!
Intermédiés de tous les pays, unissez-vous !

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Version française (j’espère que ça arrivera bientôt)
Deutsche Version (hoffentlich kommt es bald)


La rivoluzione industriale, il conflitto di classe e le sue soluzioni

La rivoluzione industriale determinò una profonda riorganizzazione sociale rispetto alla precedente economia prevalentemente agricola. Il potere economico, assai concentrato, condizionava quello politico. In USA i cd. robber barons grazie al loro controllo dell’acciaio e del petrolio rafforzavano il loro potere economico controllando in larghissima misura l’economia e la società. Nasceva la classe operaia dei lavoratori salariati e con essa il conflitto con i capitalisti padroni dei mezzi di produzione. La pressione del mercato veniva scaricata sui lavoratori che spesso vivevano ai limiti della sussistenza, e si acuivano i conflitti sociali che talvolta sfociarono in moti violenti. I ricchissimi oligarchi condizionavano l’informazione, il potere politico e quello giudiziario.

Grazie al potere di cui disponevano, non mitigato da istituzioni e regole di tutela, il valore aggiunto era accumulato dal capitale, a scapito dei lavoratori.

Dalla metà dell’ottocento e per buona parte del novecento il mondo si divise sulla base di ricette alternative di soluzione al conflitto nella ripartizione del valore tra capitale e lavoro.

Il paradigma di questo conflitto era riassunto nelle parole finali del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels che si concludeva con la famosa frase “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!  ”1.

Una risposta degli stati socialisti furono aziende di stato, slegate dal mercato, in modo da isolare la pressione sui salari, unitamente ad una ferrea regolamentazione dei rapporti di lavoro mediati dal Partito. In occidente prevalse un modello di regolamentazione più articolato che vide la nascita di istituzioni quali i sindacati con il loro diritto di sciopero; interventi legislativi che definirono diritti minimi ed incomprimibili per i lavoratori in materia di lavoro, pensione e salute; la progressiva possibilità di partecipazione dei lavoratori nella proprietà diffusa delle aziende; la nascita dell’Antitrust per mitigare il potere economico e con esso l’influenza dei potentati economici sulla politica. Il modello occidentale che è emerso vincitore dopo la fine dell’utopia sovietica è tuttavia messo alle corde dalla Rivoluzione Digitale e necessita di un ripensamento o, quantomeno, di alcuni interventi significativi.

I computer: da dove veniamo, dove andiamo.

La ricerca di base porta a sviluppi della fisica che a loro volta sono incorporati nei dispositivi elettronici che usiamo tutti i giorni. La celebre Legge di Moore prevede una crescita esponenziale delle capacità di elaborazione, archiviazione e comunicazione, grazie ad un raddoppio periodico del rapporto prestazioni/prezzo dei dispositivi elettronici, motivato in una capacità di realizzazione di componenti di base sempre più miniaturizzati. Il costo marginale di elaborazione, archiviazione e comunicazione quindi è (o diviene rapidamente) sostanzialmente nullo e le possibilità enormemente maggiori. Intelligenza artificiale è la terminologia coniata per identificare il prodotto della crescita esponenziale delle possibilità di elaborazione; Big Data per identificare le possibilità di grande archiviazione; Internet of Things per la possibilità di interconnessione. Il tutto in un gioco sinergico per cui a velocità crescente dispositivi sempre più economici si diffondono ed interconnettono sempre più; i relativi dati vengono rilevati ed archiviati, analizzati ed elaborati. Alcuni visionari ritengono che si giungerà ad un momento in cui le macchine avranno capacità superiori a quelle di un umano e che gli esseri umani includeranno diffusamente parti elettroniche per ripristinarne o aumentarne le possibilità. Tale momento di convergenza umano-elettronico viene chiamato singolarità. Che questa crescita esponenziale possa continuare a lungo fino a raggiungere la singolarità è tuttavia un atto di fede. La roadmap ITRS (International Technology Roadmap for Semiconductors) è il piano di sviluppo definito dai produttori di elettronica e fissa nel 2021 l’anno in cui si raggiungerà il limite fisico della miniaturizzazione. La miniaturizzazione dei componenti elettronici non potrà spingersi oltre per effetto di interferenze quantistiche su dimensioni atomiche. I singolaritariani rispondono che questo muro verrà superato e lo sviluppo esponenziale potrà proseguire grazie all’invenzione di qualcosa ancora inimmaginato. Questo è l’atto di fede.

Se anche non si raggiungesse la singolarità, gli effetti sulla società saranno molto significativi. Una volta raggiunto il limite fisico dello sviluppo, la concorrenza non più esprimibile in incrementi di performance si esprimerà in riduzioni di prezzo e i dispositivi elettronici permeeranno il mondo in maniera enormemente maggiore di quanto non facciano oggi. La nostra possibilità di accedere ai nostri sistemi di calcolo, archiviazione dei nostri dati e loro rilevamento e comunicazione non sarà più confinata fisicamente nei nostri dispositivi ma diffusa. Il nostro “computer” sarà definito dalla nostra possibilità di accesso a tali diffusi elaborazioni e dati, mediante un riconoscimento della nostra identità (l’asset competitivo più estremo), ovunque ci troviamo. Dal computer sul nostro tavolo, dal computer nelle nostre tasche, arriveremo – letteralmente – a vivere in un computer. Grazie al costo marginale nullo, tutto ciò che potrà essere calcolato, lo sarà; tutto ciò che potrà essere rilevato ed archiviato, lo sarà. Tutto ciò che potrà essere interconnesso, lo sarà.

Dove siamo

Tutto ciò ha subito una accelerazione negli ultimi dodici anni, con lo sviluppo delle reti wireless cellulari, in un circolo virtuoso di incremento di possibilità alimentato dalla sinergia di aumento di capacità di elaborazione dei server, delle capacità trasmissive delle reti, delle capacità di elaborazione dei computer tascabili (smartphone). Il tutto accompagnato da una velocità di diffusione senza precedenti dei mezzi tecnici, da una democratizzazione dell’accesso alle tecnologie. In ogni sistema in cui si introduce informazione, l’entropia diminuisce ed il sistema viene ottimizzato. La nostra capacità di risolvere problemi, di ottimizzare l’uso di risorse, è aumentata enormemente negli ultimi anni. Basti pensare alla disponibilità di informazione e possibilità di collaborazione dei ricercatori in campo medico, energetico o dell’alimentazione; all’ottimizzazione di trasporto e logistica grazie a sistemi di navigazione con pieno coordinamento e conoscenza; al controllo fine della produzione ed alla riduzione delle scorte; alla dematerializzazione di molte attività, riducendo l’impatto materiale sul pianeta.

Per oltre diecimila anni il mondo ha vissuto cambiamenti drastici ma molto più lenti, che richiedevano generazioni per dispiegarsi, consentendo alla società tempi di comprensione ed adattamento (anche se alcune volte sono stati violenti).

In questo caso, questo sviluppo dell’economia immateriale è stato repentino. Parrebbe che la Divina Provvidenza sia intervenuta su un mondo che consuma risorse materiali ad un livello ben superiore alle possibilità di mantenimento, offrendo uno strumento di ottimizzazione impareggiabile.

Ogni settore umano ne è impattato e tante complessità che affrontiamo oggi affondano le loro radici in queste ragioni

Macro fenomeni della dimensione immateriale

Parlo di dimensione materiale e dimensione immateriale e non di mondi reali e virtuali. Non sono mondi ma dimensioni in quanto ogni attività umana precedentemente basata su strumenti e relazioni materiali in qualche misura è toccata dalla immaterialità. Salvo alcuni casi di piena sostituzione di una precedente attività materiale con una nuova modalità immateriale, in generale l’immateriale non esclude il materiale ma lo integra, lo supplementa nello stesso modo in cui la lunghezza non è alternativa alla larghezza ma la supplementa. Ed è tutto molto reale, non virtuale. Il termine “virtuale”, dal latino medievale virtualis, porta con sé un connotato di potenzialità non espressa. Ma questa dimensione immateriale, nella quale si svolgono relazioni sociali, economiche, politiche, è molto reale, non potenziale né inespressa.

Le regole base di comportamento della dimensione immateriale, sono assai diverse da quelle della dimensione materiale. Nella tradizionale dimensione materiale produrre, riprodurre, immagazzinare, trasferire, manipolare hanno costi (economici e di impatto ambientale) significativi. In questa recente dimensione immateriale questi costi sono marginali o nulli. La materialità è intrinsecamente disconnessa in quanto composta da oggetti che non comunicano tra loro; le sue frizioni richiedono tempo per essere superate, determinano usura e i rendimenti tendono a decrescere. L’immateriale, che è intrinsecamente connesso, è caratterizzato da feedback in tempo reale (e quindi possibilità di raccolta dati, analisi, personalizzazione ed adattamento), da una assenza di usura e da possibilità di rendimenti crescenti.

Salvo casi di grande standardizzazione e ripetitività, assistito da macchine specifiche, il lavoro nella dimensione materiale è svolto da persone che hanno necessità di mezzi di produzione, di oggetti in input sui cui lavorare, di cicli di riposo e di svago. Questo ha portato con la rivoluzione industriale la definizione dei turni di lavoro ed il commuting per svolgere l’attività, con conseguenti impatti sulla struttura delle città, il commercio, ecc.

Un lavoro che possa essere svolto nella dimensione immateriale, se ripetitivo può essere svolto da macchine che non conoscono turni; se con componenti di creatività e relazionalità può essere svolto da persone da qualunque luogo, beneficiando anche dell’effetto dei fusi orari per coprire l’arco della giornata.

Il cordone ombelicale digitale che lega le parti in una relazione immateriale viene sfruttato per aggiornare il prodotto/servizio fornito con frequenti rilasci e personalizzato grazie all’acquisizione e conoscenza dei dati. Tale personalizzazione si spinge fino al singolo individuo ponendo questioni nuove in merito alla disponibilità di dati come asset competitivo, alla estrema riduzione di informazioni disponibili in comune.

Fino ad oggi le informazioni disponibili in comune ad una collettività hanno sempre costituito un fattore importante per mantenerne armonia e coesione, arrivando fino a definizione di veri e propri riti sociali. Con la personalizzazione individuale del flusso informativo, si erode il ruolo dei media di agire da metronomo sociale. La personalizzazione delle informazioni ricevute, con gli attuali incentivi per chi gestisce gli algoritmi, determina l’esclusione di informazioni sgradite ed aumenta in chi le riceve la frequenza di messaggi di conferma delle proprie convinzioni e bias, favorendo con le cosiddette “filter bubbles” (bolle di informazioni filtrate) l’acquisizione di informazioni gradite, a prescindere dal loro grado di verità e correttezza. I costi marginali nulli nella produzione e divulgazione delle informazioni hanno eliminato le barriere di costo che costituivano una frizione alla loro creazione e circolazione; si è determinato un abbattimento delle barriere di potenziale che costituivano un argine alla divulgazione di informazioni moltiplicando di ordini di grandezza la diffusione delle fake news che alimentano le filter bubbles. L’accessibilità ad informazioni su ogni tema, anche su temi specialistici, prima limitata agli addetti ai lavori, è ora ubiqua a costo nullo alimentando la percezione di una riduzione estrema della distanza tra esperti, appassionati e lettori casuali. Ciò induce una percezione di appiattimento delle gerarchie che spinge alla banalizzazione dell’esperienza, un effetto moltiplicato dagli algoritmi degli intermediari dell’informazione la cui funzione obiettivo non è la correttezza dell’informazione ma la massimizzazione del tempo passato dagli utenti sui propri servizi online. Che ciò produca effetti sulla politica è notorio: dalla recrudescenza delle interazioni spinta da enfatizzazioni (determinate anche da impulsività favorita dal tempo reale ed una errata percezione di anonimato favorita dall’isolamento e dalla mediazione strumentale della comunicazione). Sono meno noti gli effetti sull’esito elettorale anche se Facebook ha condotto esperimenti sociali che hanno dimostrato di poter condizionare il tasso di partecipazione al voto e recentemente Zuckerberg in uno scritto inviato al Parlamento Europeo ha affermato di non essere in grado di assicurare che il social network sia utilizzato in modo tale da produrre effetti manipolativi sull’andamento del voto.

La proprietà privata, fondamento del modello occidentale di risposta alle sfide dell’industrializzazione, è radicata nelle proprietà intrinseche della materialità in cui i beni sono rivali ed escludibili. Conseguentemente i beni sono portatori di diritti, immunità, facoltà e privilegi2 definiti e codificati in leggi che si fondano su rivalità ed escludibilità. Anche tutto il sistema giuridico trova un fondamento in queste due caratteristiche.

Il controllo degli asset nella dimensione immateriale non avviene sulla base di rivalità ed escludibilità. Una informazione, una volta che viene comunicata a un terzo, non diminuisce la possibilità di goderne da parte di chi la comunica. E’ celebre l’aforisma del Presidente Thomas Jefferson: Chi riceve un’idea da me, ricava conoscenza senza diminuire la mia; come chi accende la sua candela con la mia riceve luce senza lasciarmi al buio. Per poterne mantenere il controllo e replicare rivalità ed escludibilità, un bene/servizio immateriale non viene posto nella piena disponibilità del ricevente come accade con un bene materiale ma spesso, se modello di business e mercato lo consentono, viene erogato in modo connesso con un controllo centralizzato della sua fruizione ed invariabilmente accompagnato da un contratto che disciplina in modo dettagliato diritti, immunità, facoltà e privilegi, che, in un braccio di ferro largamente asimmetrico, invariabilmente favorisce chi fornisce il bene/servizio rispetto a chi ne gode. Nella dimensione immateriale, la proprietà privata, per gli utenti, non esiste.

Feudalesimo tecnologico

A partire dagli anni 90 del secolo scorso, mentre i vagiti esponenziali delle tecnologie digitali (calcolo, archiviazione, comunicazione) iniziavano a diventare percepibili, la politica decise di favorirne lo sviluppo. Si parlava di società dell’informazione con l’idea – corretta – che avrebbe avuto un impatto inferiore sulle risorse del pianeta rispetto ad un modello di sviluppo basato su una economia materiale. Sono state così fatte alcune regole asimmetriche per favorire la concorrenza e con essa la nascita e la crescita di operatori di telecomunicazione alternativi e fornitori di servizi. Le modalità di monetizzazione non erano chiare, i modelli di business nemmeno, e non lo erano nemmeno i tempi in cui si sarebbe raggiunta una massa critica in grado di sostenere una economia immateriale. Un po’ alla volta queste nubi si sono diradate. La massa critica è stata raggiunta da anni e con essa sono diventati molto chiari i modelli di business e le possibilità di monetizzazione.

Per scelta non furono introdotte regole pro-competitive, perché si riteneva che avrebbero rallentato e possibilmente bloccato lo sviluppo. Si introdussero regole circa la proprietà intellettuale e la violazione dei sistemi, la responsabilità editoriale, la protezione dei minori, le indagini di giustizia, ma non in materia di contendibilità degli utenti e di concorrenza.

Gli operatori hanno imparato a sfruttare questa regolamentazione a proprio vantaggio usando le normative in materia di proprietà intellettuale per imporre condizioni contrattuali limitative per i propri utenti, sfruttando effetti rete per beneficiare di rendimenti crescenti (conquistare il primo utente, che bisogna convincere, costa molto di più che non conquistare il miliardesimo utente che prega per essere ammesso all’interazione con gli altri e spera di non esserne mai espulso) e per introdurre fattori di lock-in (vincoli di fatto nei servizi) per limitare la mobilità degli utenti.

Mentre in altre industrie imponiamo portabilità del numero telefonico, del credito, del mutuo bancario, del contatore elettrico o del gas, per favorire la concorrenza, questo, online non è previsto.

Conseguentemente, chi conquista la world dominance in un settore, difficilmente potrà essere scalzato. Provate a dire ai vostri figli di abbandonare Whatsapp per passare a Indoona. Non lo faranno mai. Su Whatsapp possono interagire con tutti i loro amici; mandarli su Indoona sarebbe come condannarli su un’isola quasi deserta. Lo stesso vale per i venditori rispetto ad Amazon, gli albergatori rispetto a Booking, i ristoratori rispetto a Thefork, gli affittuari rispetto ad AirBnb, gli autisti rispetto ad Uber, e via dicendo. Quando un operatore sta per vincere in un settore, gli investitori gli riverseranno quantità di capitale immani in modo tale da farlo diventare LA scelta obbligata di fatto per quel settore. La competizione cessa di essere NEL mercato ma PER il mercato. Non si compete nel mercato dell’intermediazione delle case vacanza, ma per conquistare una posizione di leadership assoluta, inscalfibile, in una nicchia di mercato.

I costi di marketing per far adottare un servizio sono oggi l’investimento più importante in un operatore immateriale, ordini di grandezza maggiore di quelli tecnologici. Non sono operatori tecnologici, sono intermediari di mercato che intercettano una quota del valore aggiunto che fluisce tra produttori e consumatori. Si creano così mercati monopolistici o oligopolistici a due versanti, con gestori che dettano legge e, da un lato, intermediano i consumatori in via esclusiva di fatto e, dall’altro, produttori che devono sottostare alle regole per poter avere accesso al mercato (e non farli arrabbiare per non subire discriminazioni, di cui gli intermediari si riservano sempre contrattualmente il diritto). Quanti sanno che se una persona scarica un software e lo installa su un Macintosh, il relativo pagamento va al produttore del software mentre se lo fa su un iPad o un iPhone, il 30% va alla Apple ? Lo stesso dicasi per un giornale, una canzone, un libro su Apple, Android, Amazon. O che il 25% del prezzo della camera (IVA inclusa) va a Booking ? – praticamente il 100% del margine dell’albergatore, che deve però pagare i costi vivi, le manutenzioni e – non un dettaglio – il personale ?. Quanti conoscono le condizioni di lavoro di un autista di Uber (che fissa il prezzo delle corse) o di Foodora ? Non intendo sostenere che queste non siano opportunità per lavori occasionali che possono costituire un reddito integrativo per qualcuno in una fase della vita. Ma se cessano di essere occasionali e diventano continuative, sottoposti ad un controllo algoritmico dell’operato assai più stretto di quello possibile in un tradizionale rapporto di lavoro, anche in questo caso si pone una questione di asimmetrie regolamentari che favoriscono una tipologia di attività rispetto ad un’altra, inclinando il piano competitivo verso intermediari monopolisti/oligopolisti immateriali.

Dalla parte dei monopolisti/oligopolisti immateriali

Mettiamoci un po’ dalla parte dei monopolisti/oligopolisti immateriali. Sono stati bravi. Hanno avuto idea, visione, determinazione, capacità di realizzazione superiore ai concorrenti. Hanno conquistato una posizione dominante in una nicchia di una nuova intermediazione immateriale grazie a durissimo lavoro, grandi competenze e grandi capitali (all’inizio, finché non era chiaro ai venture capitalist che sarebbero risultati i vincitori, tirando la cinghia).

Adesso sono monopolisti (o magari oligopolisti),

  • controllano mercati verticali online a livello planetario, determinando a cascata anche i prezzi nei mercati offline e quindi nel resto dell’economia;

  • estraggono valore dalle intermediazioni dei produttori (da entrambe le tradizionali categorie del conflitto ottocentesco capitale/lavoro);

  • governano l’accesso al mercato attraverso il controllo delle piattaforme (basato su contratti che impongono con la loro forza contrattuale e sfruttando la protezione delle leggi a tutela della proprietà intellettuale), la ricercabilità e l’ordine di visualizzazione delle offerte ed, in alcuni casi, il controllo dei commenti;

  • in alcuni casi incassano un intermediazione su un prezzo, in altri tramite aste che essi stessi bandiscono per un servizio che loro offrono e in cui le offerte sono totalmente opache;

  • godono di effetti rete che gli riducono il costo di acquisizione dei clienti e di lockin che limitano la contendibilità da parte di eventuali competitor;

  • hanno una regolamentazione che li esenta dalla responsabilità di controllare i contenuti/offerte proposte;

  • possono trasferire i margini da un paese all’altro grazie a royalties su proprietà intellettuale e all’assenza di stabili organizzazioni nei paesi dove hanno i clienti (facendo così uno shopping fiscale scegliendo il luogo dove pagare meno tasse ed erodendo la capacità impositiva degli stati);

  • beneficiano di economie di scala infinite, grazie a costi marginali e/o costi variabili nulli;

  • controllano l’esecuzione delle attività dei produttori di valore (capitale e lavoro) grazie a strumenti tecnologici;

  • stabiliscono condizioni di lavoro per i rapporti occasionali con un grado di controllo superiore a quello normalmente in essere nei tradizionali rapporti di lavoro;

  • impongono unilateralmente ai prestatori professionali di beni e servizi da loro intermediati delle condizioni di fornitura non negoziabili;

  • beneficiano di modalità di esternalizzazione e flessibilizzazione dei rapporti con varie tipologie di loro collaboratori, sfruttando la porosità dei perimetri aziendali determinate dall’informatizzazione delle attività;

  • intermediano offerte tra operatori non professionisti che riducono i diritti e le tutele dei consumatori, in particolare delle fasce più disagiate;

  • influenzano la formazione della pubblica opinione grazie ad algoritmi che filtrano le informazioni presentate agli utenti avvolgendoli in “filter bubbles”;

  • influenzano il pensiero scientifico finanziando una miriade di ricercatori, opinion leader e policy maker in tutto il mondo;

  • custodiscono l’accesso al mercato di potenziali competitor futuri mediante vincoli contrattuali imposti sfruttando le normative in materia di proprietà intellettuale (basti pensare agli app store);

  • grazie alle proprietà intrinseche dell’immaterialità evadono i tradizionali diritti/doveri/privilegi ed immunità della proprietà privata sovrapponendo loro condizioni e termini contrattuali;

  • beneficiano di un accesso a finanza agevolata grazie ad un accesso privilegiato al mercato dei capitali di rischio, che sono spesso interconnessi in una invisibile ragnatela di interessi gestiti sinergicamente,

e sicuramente dimentico qualche altro aspetto…

Rivoluzione digitale e Info-plutocrazia

Stiamo entrando nel merito di una questione che è squisitamente politica. Intendendo la politica come lo strumento per raggiungere obiettivi futuri, socialmente desiderabili.

Non possiamo più limitare l’analisi a capitale e lavoro, dobbiamo includere anche l’informazione e la Rivoluzione Digitale che la esprime.

Possiamo pensare un futuro in cui, per ogni attività economica realizzata da produttori – capitale e lavoro – chi controlla la terza variabile, ovvero l’informazione, siano pochi intermediari monopolisti/oligopolisti (monopsonisti/oligopsonisti) che estraggono valore dal controllo della intermediazione, spremendo il valore dal capitale e, in cascata, dal lavoro?

Il capitalismo ha trovato delle modalità di rapporto tra lavoro e capitale che hanno superato il modello socialista/comunista di collettivizzazione dei mezzi di produzione.

Abbiamo una parola per descrivere questa modalità, ovvero proprio “Capitalismo”.

In pochissimi anni, il tradizionale conflitto capitale-lavoro è stato avvolto e sovrastato da un altro conflitto, quello con l’informazione che, tramite il controllo della intermediazione, preme su entrambi.

In pochi anni le 5 principali aziende nel mondo sono operatori che poggiano la loro dominanza sull’intermediazione di qualche mercato verticale. Tre imprenditori controllano un impero economico superiore a quello di molti stati OCSE.

Stiamo osservando una monopolizzazione nella sovrastazione della rilevanza della dimensione immateriale su quella materiale nelle modalità di creazione e distribuzione della ricchezza, con un nascente conflitto tra intermediatori ed intermediati, con compressione di diritti e garanzie per vaste parti sociali e con rilevante influenza politica.

Un predominio che potremmo chiamare a buon titolo “info-plutocrazia”.

L’info-plutocrazia degli intermediatori si fonda su un controllo centralizzato dell’informazione, sia in termini di dati (di cui i risvolti sulla privacy sono un epifenomeno) che di processi con cui tali dati sono raccolti, elaborati, comunicati ed utilizzati. Ma è il modello opposto a quello con cui Internet è nata e si è sviluppata. Per lunghi decenni Internet è stata costruita su protocolli, ovvero regole pubbliche, che tutti potevano incorporare nei loro software, che stabilivano le modalità con cui i calcolatori (server e client) dovevano comunicare e chiunque poteva realizzare client e server e competere. Anche la telefonia si è fondata su meccanismi simili, dagli apparecchi (telefoni, centralini, segreterie, ecc) agli apparati di rete usati dagli operatori ed ai servizi sviluppati su di essi. Alcuni esempi noti a tutti sono gli SMS e la posta elettronica. Una decentralizzazione ottenuta con una vasta molteplicità di server e client che interoperano e chiunque può mandare un SMS o una mail a chiunque senza preoccuparsi dell’operatore o del servizio usato dal suo ricevente. Un esempio opposto sono Whatsapp, Facebook, Instagram, Snapchat, servizi centralizzati per cui si può comunicare unicamente aderendo allo stesso, unico servizio, gestito da un solo operatore.

Questo approccio di chiusura, una volta che il dominante planetario si è costituito, riduce la concorrenza e riduce la biodiversità dell’infosfera, con gli effetti di cui ho parlato sopra. Il contrario dello spirito di apertura e di massima contendibilità degli utenti che ha fatto nascere e crescere internet così rapidamente.

Gli effetti della rivoluzione digitale si estendono a tutti i mercati intermediati da operatori monopolisti/oligopolisti e monopsonisti/oligopsonisti.

Riassumendo, il conflitto tra capitalisti e lavoratori indotto dalla rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo si è sviluppato nel rapporto tra capitale e lavoro con ideologie contrapposte che hanno visto dopo molti decenni la prevalenza sul modello socialista/comunista di un modello di capitalismo di massa temperato da norme di tutela e garanzia ed il dibattito tra le sponde politiche di destra e sinistra si è sviluppato sul punto di equilibrio tra queste.

Il conflitto tra intermediatori ed intermediati indotto dalla rivoluzione digitale del ventunesimo secolo si sviluppa nel rapporto tra informazione e produzione (intesa come il prodotto di capitale e lavoro) e sta iniziando un confronto sociale tra un modello di gestione dell’informazione centralistico che si è sviluppato negli ultimi anni (e sostenuto dalle grandi multinazionali tecnologiche) ed un modello decentralizzato promosso da alcune avanguardie (filosofiche, tecnologiche, politiche, ecc.), un dibattito con differenze profonde tra chi propugna sistemi ed ambienti chiusi e chi si batte affinché siano aperti alla maggiore concorrenza e contendibilità possibile .

Rivoluzione industriale

Rapporto Capitale vs. Lavoro

Capitalisti

Lavoratori

Capitalismo di massa

Socialismo/Comunismo

Destra

Sinistra

Categorie del diciottesimo/diciannovesimo secolo

 

Rivoluzione digitale

Rapporto Informazione vs. Produzione (Capitale&Lavoro)

Intermediatori

Intermediati (Capitale&Lavoro)

Centralismo

Decentralismo

Chiuso

Aperto

Categorie del ventunesimo secolo

 

o, rappresentando i conflitti in un altro modo

  • Conflitto precedente: Capitale vs. Lavoro
  • Conflitto attuale: Informazione vs. ( Capitale & Lavoro)

Quale futuro vogliamo immaginare?

Per quanto sarà possibile non rilevare questa “info-plutocrazia” e questo nuovo conflitto tra intermediatori ed intermediati ? Potremo consentire ancora per molto tempo che essa si espanda, verticale dopo verticale, ad altri settori economici sperando che una nuova mano invisibile risolva i problemi? Qualcuno pensa che sia possibile dis-inventare le tecnologie digitali ed Internet che è una sua espressione ? O pensiamo a degli obiettivi socialmente desiderabili che richiedono degli interventi politici? E che tipo di interventi?

La riduzione di gettito fiscale, il condizionamento dell’opinione politica, le pressioni sui tradizionali operatori, sono infatti solo rappresentazioni di punti di vista diversi di uno stesso fenomeno: la prevalenza dell’informazione monopolistica/monopsonistica su capitale e lavoro.

Penso che non si possa rispondere solamente aumentando le tasse, come alcuni vorrebbero fare. Questi extra costi, salvo alcuni casi3, verrebbero trasferiti su consumatori o produttori.

In alcuni casi è stato proposto di realizzare dei “campioni di stato” (come ad esempio un motore di ricerca pubblico, o un social network o una piattaforma pubblica di intermediazione di offerte professionali). In altri casi si è anche proposto di considerare il social networking una infrastruttura sociale non duplicabile e qualcuno ne ha persino proposto la nazionalizzazione. Sono ipotesi che riportano alla mente la risposta sovietica alle pressioni dell’industrializzazione tramite aziende di stato.

Non credo che tali provvedimenti dal profumo totalitarista possano funzionare; credo che potrebbe generare più problemi di quelli che tenta di risolvere, in ambiti adiacenti (dal controllo sociale a vulnerabilità per la privacy ed altri diritti fondamentali).

Credo che abbiamo bisogno di rispondere come la società occidentale ha risposto alla rivoluzione industriale, ovvero con più interventi a favore del mercato, favorendo una minore concentrazione dell’informazione e regolamentando le esternalità negative. Credo che non si debba cedere alla logica della ineluttabilità dei sistemi chiusi e si debba schierarsi convintamente con forza dal lato dell’apertura.

Per affrontare la rivoluzione digitale abbiamo bisogno di un pacchetto complessivo di provvedimenti che si fondino sui principi di ciò che abbiamo già fatto nel periodo della rivoluzione industriale: nuove forme di fiscalità, innovazioni nel welfare, nei diritti dei lavoratori e dei prestatori professionali, controlli pubblici di garanzia per i consumatori e, in modo fondamentale, aumento della concorrenza, regole procompetitive, contendibilità degli utenti, interoperabilità dei servizi, ecc.

Ma difficilmente ciò potrà accadere senza una presa di coscienza di questo nuovo conflitto di intermediazione tra l’informazione da una parte e della produzione (cioè il combinato capitale e lavoro) dall’altra e senza che questa presa di coscienza si traduca in azione politica.

Perché questa azione politica avvenga, è necessario che gli intermediati la esigano coalizzandosi nella presa di coscienza:

“Intermediati di tutto il mondo, unitevi!”

 

1 nella traduzione russa che fu adottata come slogan dall’URSS. La versione tedesca recitava “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”

2 questa tassonomia si deve al giurista statunitense Wesley Newcomb Hohfeld che diede un grande contributo alla comprensione della natura dei diritti e alle implicazioni della libertà.

3 ad esempio quelli basati su aste di beni immateriali a costo variabile nullo

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2 thoughts on “Intermediati di tutto il mondo, unitevi!”

  1. Antonio Sassano

    Caro Stefano, ammetto di tornare spesso a rileggere il tuo contributo sugli “Intermediati di tutto il Mondo”. Lo faccio per confrontarmi con intl tuo punto di vista ogni volta che ho la sensazione che il mio percorso di riflessione su questi temi abbia fatto un piccolo passo avanti. Rileggerti è sempre illuminante e spesso le tue parole rispondono alle mie domande. Ora è una di quelle volte ma, contrariamente al passato, non sono completamente convinto dai tuoi argomenti e sento il bisogno di misurarmi con te su una questione che pure non ti sfugge (vedi il post con la risposta alla domanda di Paul Krugman).

    La questione è questa. Nel tuo articolo sugli “intermediati” non compare mai la prospettiva della Distributed Ledger Technology (DLT). In nessun passaggio. Né nella descrizione di quello che accade né nelle prospettive di sviluppo. Tu dici:

    “Il controllo degli asset nella dimensione immateriale non avviene sulla base di rivalità ed escludibilità. Una informazione, una volta che viene comunicata a un terzo, non diminuisce la possibilità di goderne da parte di chi la comunica.”

    Riportata nei termini ristretti delle criptovalute (sicuramente beni immateriali) questa è la questione del “double spending”. Ovvero, posso ancora disporre del denaro che ho appena speso? La DLT è li per consentirci di rispondere: “NO, NON PUOI”.. Dunque tutto il meccanismo del PoW (ma anche i protocolli più moderni di PoS e di PoS+Crittografia) sono in sperimentazione (direi in ebollizione) per cancellare la non rivalità e la non escludibilità di un bene immateriale o meglio del bene privato per eccellenza (il denaro) quando diviene immateriale. Ovviamente questo vale anche per molti altri beni immateriali a partire dai dati (come hai giustamente osservato nella risposta a Krugman).

    Ora tu descrivi l’evoluzione delle grandi piattaforme centralizzate in un epoca nella quale la DLT non era ancora nata (BS ….. Before Satoshi). Un’epoca nella quale un protocollo leggero e aperto (TCP/IP) consentiva a tutti di costruire applicazioni “Fat” ed il “Network Effect” spostava il valore verso le applicazioni. Zero remunerazione per il protocollo Internet .. tutto il valore alla App.

    Come giustamente osservi, questo processo e l’ecosistema dell’era BS hanno portato alla nascita e alla crescita degli OTT. Ma non credi che l’oggettivo successo dell”esperimento Bitcoin” e lo sviluppo successivo delle DLT, e della Token Economy, non sia quel repentino cambio di paradigma (un pò come il meteorite e i dinosauri) che senza interventi esterni, senza tasse, senza società pubbliche o regolatori (con armi spuntatissime) sta modificando quel mondo che hai ben descritto nel tuo articolo?

    Non pensi che gli “intermediati” abbiano nella DLT uno strumento di azione molto potente e che lo sviluppo di BlockChain alternative (mi fa piacere che tu abbia citato quella che più mi intriga: Algorand di Silvio MIcali), con sistemi di incentivo (Token) e controllo distribuito abbiano avviato (come dice Joel Monegro) un processo di “riflusso” del valore: dalle App (o DApp) ai “Fat Protocol” e dunque dagli Intermediatori agli Intermediati (stakeholders)?

    Non è forse questa la risposta vera a Krugman. La DLT non serve sopratutto a questo?

    Ancora grazie per lo stimolo continuo alla riflessione su questi temi!

    1. Stefano Quintarelli

      ho un sacco di concetti interconnessi in testa, difficilmente linearizzabili.

      qualche settimana fa (meta agosto) ho scritto nella mailing di nexa:

      piu’ che alle cryptocurrencies personalmente guardo con interesse alle possibili applicazioni di crittografia e registri pubblici per la potenzialita’ di rendere le informazioni rivali ed escludibili, consentendo quindi di ridare la proprieta’ dei dati agli utenti.
      mi sembra di leggere sempre piu’ cose su questo argomento e non e’ un caso che shapiro abbia detto di recente che i dati sono non rivali e solo parzialmente escludibili (mi verrebbe da pensare che intedesse “quando li custodisce qualcuno” (tipo google))
      IMHO IPFS potrebbe essere rilevante in questa ipotesi

      e’ vero che BTC e’ un esperimento di un certo successo, cosi’ come lo e’ stato bittorrent
      ma non e’ stato sufficiente per scalzare le CDN con controllo centralizzato.
      c’è un certo grado di somiglianza tra DHT e DLT
      aldila’ di un po’ di distribuzione di sw opensource bittorrent non esiste sulla scena (intendo per usi leciti).
      lo use case di acestream e’ per certi versi emblematico. tecnologia eccellente, ma i content provider vanno da una CDN.
      parlavo giusto ieri con un content provider (video) che mi diceva proprio “si si, tutto figo, ma vado da uno che mi fa un contratto con SLA”.
      il tema dello SLA, ovvero di pararsi rispetto alla responsabilità in azienda è non banale.
      solo in presenza di un AD molto tech-savvy un content provider potrebbe abbandonare akamai o amazon/cloudfront per fare una scelta “interna”. meglio avere un fornitore esterno con degli SLA da biasimare rispetto a rischiare il proprio posto (e’ un po’ il solito discoroso di verifica di compliance al processo rispetto alla verifica di risultato).

      rendere disponibili i miei dati a delle DApp con un meccanismo che mi consenta di replicare rivalità ed escudibilità potrebbe essere una cosa che scala come utilizzo ma penso che tale facolta’ dovrebbe essere imposta dalla regolamentazione. diversamente i feudatari digitali info-plutocrati, perche’ dovrebbero implementarlo ? c’e’ troppa asimmetria di risorse tra loro e dei newcomer (se li comprano e li tengono in frigo o li ammazzano, pensa a waze e friendfeed…) e sono troppo interconnessi con il sistema dei VC.

      penso che l’idea che “competition is a clic away” sia stata da loro promossa e cavalcata, sapendo che non era cosi’; buttava la palla in tribuna.
      analogamente penso che non dobbiamo fare l’errore di pensare che DLT, che tecnologicamente e’ una cosa molto interesante e speculativamente ha attratto tantissima attenzione, sia autonomamente in grado di generare operatori economici rilevanti in grado di riequilibrare il feudalesimo digitale in cui stiamo, senza interventi regolamentari (che pero’ la DLT potrebbe abilitare). affermarlo penso sia una nuova palla in tribuna.

      pensa a Gdocs. un nuovo che arriva con una versione DApp, ecc. ecc. sarebbe in grado di scalfire ? la mail che per sua natura nasce distribuita ha dimostrato che agli utenti la preoccupazione della cessione e concentrazione dei dati interessava meno rispetto a storage e UX. E si e’ creato un lockin pazzesco. (migra tu 20GB di mail+calendario+indirizzario, cosi’ intimamente legati sul mobile…) un nuovo sistema di chat sarebbe in gradi di scalfire l’insieme di tool di FBK ? (chi usa signal ?)

      fammi fare un pareallelo antico… le centrali elettroncihe abilitavano la separazione accesso/numero ponendo il numero nella disponibilita’ dell’utente e quindi la number portability. se anche un qualche numero di piccoli newcomer avessero detto “io ti rendo proprietario del tuo numero” (pensa alle telco di Piol), sarebbe statp un motivo sufficiente per abbandonare il complesso di servizi che avevi dalla SIP di CDN, linee voce, SIM ? (in assenza di obbligo regolamentare)

      penso che la direzione possa essere quella che tu indichi (come scrivevo su Nexa) ma pnso che la tecnologia (DLT) da sola non sia sufficiente, ma che puo’ essere un abilitatore regolamentare.

      spero di essere stato sufficienteemente sul punto e sufficientemente chiaro…
      🙂

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