P2P: c’è qualcosa di buono nel “patto francese”

Paolo Nuti –  Coordinatore Gruppo di Lavoro AIIP su IPTV, proprietà intellettuale e accesso ai contenuti.

Credo che al di là degli appelli, il “patto alla francese”, frettolosamente bollato come liberticida anche da alcune associazioni dei consumatori e da molti mass-media, richieda un approfondimento. Perchè sarebbe un peccato non prestare la dovuta attenzione a quel che c’è di buono.

I lettori di Interlex sono certamente al corrente che da diversi anni i titolari dei diritti di proprietà intellettuale, prime tra tutte le Major statunitensi, hanno organizzato una serie di centri servizi che verificano se la “messa a disposizione” dei “contenuti” (film, brani musicali, etc.) operata da chi utilizza le tecnologie P2P è fatta in violazione dei loro diritti. L’operazione è concettualmente semplice: se qualcuno mette a disposizione un contenuto perché chiunque possa accedervi, possono scaricarlo anche i titolari dei diritti e prendere atto dell’eventuale violazione.

L’unica informazione che così si ottiene relativamente al soggetto che opera la “messa a disposizione”, è l’indirizzo di rete utilizzato per la presunta violazione. Gli unici soggetti che, con le dovute eccezioni, possono risalire all’identità del cliente a cui è stato assegnato il numero di rete sono i fornitori di accesso ad Internet. Di conseguenza i titolari dei diritti tendono ad inondare i fornitori di accesso con segnalazioni circa i presunti illeciti.

Segnalazioni che, in Italia, i fornitori di accesso non possono che trasmettere all’autorità giudiziaria, perché in fase di recepimento della direttiva europea sul commercio elettronico, i titolari dei diritti sono riusciti a convincere il legislatore italiano ad aggiungere un codicillo secondo il quale il fornitore del servizio, nel caso in cui venga a conoscenza dell’illecito, ne diventa civilmente responsabile se non denuncia il fatto all’autorità.

Si stima che, se i fornitori di accesso non si rifiutassero di riceverle, le segnalazioni così prodotte dai titolari dei diritti sarebbero, solo per l’italia, dell’ordine della diecina di miglia al giorno e i tribunali risulterebbero intasati da milioni di denunce che rimarrebbero sostanzialmente lettera morta.

Un vero e proprio autogol, dal punto di vista dei titolari dei diritti, che qualcuno (ricordate il caso Peppermit?) ha cercato di evitare chiedendo ai fornitori di accesso, prima direttamente e poi per via giudiziaria, di comunicare l’identita dei clienti al titolare dei diritti. Richiesta inaccettabile se avanzata direttamente e che comunque ha sollevato l’intervento del Garante dei dati.

Partendo dal presupposto che quello di essere pagato per il frutto del proprio lavoro sia un sacrosanto diritto di chi scrive, compone, produce, edita, pubblica, etc., etc, riconosciuto tra l’altro da quella stessa Costituzione che invochiamo a tutela del sacrosanto diritto alla segretezza ed inviolabilità delle comunicazioni e nella certezza che, una volta informati, i clienti si asterrebbero in larga misura da ulteriori illeciti, i fornitori italiani di accesso ad internet sollecitano da tempo una modifica del quadro normativo che scongiuri qualsiasi ipotesi di filtraggio generalizzato del traffico – ipotesi contro la quale si sono battuti al tempo dei famigerati “sceriffi della rete” proposti dall’ex ministro Urbani – e consenta viceversa di inoltrare ai clienti, per loro opportuna informazione e valutazione, le segnalazioni inviate dai titolari dei diritti.

Ebbene, il “patto alla francese” prevede esattamente questo, anzi, offre una garanzia in più: i titolari dei diritti devono inviare le proprie segnalazioni ad una Autorità presieduta da un magistrato che le gira ai fornitori di accesso perché a loro volta informino i clienti della diffida emessa a loro carico. Con un corollario di sanzioni, in caso di recidiva, che vanno dalla sospensione temporanea del collegamento ad Internet all’iscrizione in un elenco di soggetti plurisanzionati.

La proposta merita la massima attenzione, anche se richiede qualche mitigazione. Per mancata vigilanza si può multare il titolare dell’abbonamento, ma non privare di un ormai indispensabile accesso ad Internet un intera comunità familiare od aziendale.

Piuttosto che su questo aspetto, i commenti negativi si sono concentrati sulla ipotesi di inaccettabili filtraggi generalizzati di tutto il traffico che attraversa la rete. Senonché, un esame più attento del patto alla francese evidenzia che le (inaccettabili, come sopra ribadito) metodologie di analisi globale del traffico sono citate come mera ipotesi di studio e che la loro applicazione è subordinata al “caso in cui siano convincenti i risultati e la loro applicazione tecnica e finanziaria possa essere ritenuta realistica”. Tradotto dal politichese, significa che i fornitori di accesso si sono opposti alle reiterate insistenze dei titoli dei diritti e che il problema viene rinviato sine die. E comunque in Italia una previsione del genere, che richiederebbe una modifica costituzionale, appare ancora più remota.

In definitiva, l’unica previsione pratica relativa al filtraggio è quella che riguarda le piattaforme distributive, anche quelle P2P, che dovrebbero essere modificate perché il download sia affiancato da una verifica della “filigrana elettronica” eventualmente inserita nel “contenuto” al fine di consentire al titolare dei diritti di negare l’autorizzazione allo scambio.

Su questo punto, ben diverso dal precedente, si può o meno essere d’accordo sotto il profilo tecnico (un DRM Open Source potrebbe essere più pratico di una banca dati di watermark), ma non sotto quello del bilanciamento tra libertà di comunicazione e tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Liberta di comunicazione non può significare liberta di danneggiare il diritto degli autori etc. ad essere retribuiti per il loro lavoro.

Alla luce di queste considerazioni, le violentissime critiche avanzate al patto francese appaiono molto superficiali. Si è concentrata l’attenzione su problemi che nascono da una lettura disattenta e dalla mancata considerazione del quadro costituzionale, ma sono stati trascurati problemi sostanziali (la medioevale punizione per il fatto del terzo). E quel che è peggio, si sono persi totalmente di vista gli aspetti positivi del patto alla francese.

Sarebbe viceversa costruttivo mettersi all’opera per proporre un “patto all’italiana” che prenda il buono di quello alla francese scartandone le criticità.

Paolo Nuti

Francesismi

“Il nostro Paese detiene una delle più forti industrie di contenuti esistenti nel pianeta; questo ci dà la possibilità di preservare e sviluppare l’identità culturale e l’influenza della Francia in Europa”.

Così esordisce il cosiddetto “accordo alla francese” tra Governo Sarkozy, titolari dei diritti di proprietà intellettuale, fornitori di accesso ad Internet e fornitori di piattaforme distributive di musica e film On-line per proseguire con trionfalistico “Il nostro Paese beneficia inoltre di una tra le più sviluppate industrie di accesso a Internet a banda larga in tutto il mondo”.

No, cari cugini d’oltralpe, con 22,5 abbonati alla larga banda ogni 100 abitanti (OECD, giugno 2007) siete solo tredicesimi in classifica mondiale. Meglio dell’Italia (al ventunesimo posto con un modesto 15,8 abbonati per 100 abitanti), ma molto peggio di Danimarca (prima in classifica con il 34,3), Olanda (33,5) e un’altra diecina di paesi; tra cui la Svizzera (30,7) e la Corea (29,9). P.N.